L'unica volta del Mago gratis.
La recente denuncia di Ferruccio Mazzola, nella sostanza già fatta nel suo libro (quello che oltre alla rottura con il fratello Sandro gli fece guadagnare la querela di Facchetti), sulle strane pastiglie che Helenio Herrera dava ai giocatori della Grande Inter di Angelo Moratti, facendole sperimentare prima ai ragazzini, ci ha fatto venire in mente che qualche anno prima, rispetto a quelli a cui si riferisce Mazzola, l’Inter del Mago era stata al centro di un caso di doping che si era intrecciato con la breve e controversa esperienza mondiale dell’uomo che fece fare il salto di qualità finanziario alla categoria degli allenatori.
Herrera arriva alla corte di Moratti padre, non vincente da cinque anni (cioè da quando ha preso in mano la società) nel 1960, dopo due campionati vinti con il Barcellona (dove non si è fatto problemi nell'accantonare gente come Kubala, Czibor e Kocsis), e dopo una stagione di assestamento (terzo posto, ma proprio come ai giorni nostri arrivare quarti è quasi impossibile), la guerra ad Angelillo, l’acquisto del pupillo Suarez e tanti altri fatti (sorvoliamo, se no faremmo prima a scrivere tutta la storia nerazzurra) nel 1961-62 presenta un’Inter da scudetto, proprio mentre dalle giovanili ragazzi chiamati Mazzola e Facchetti stanno per raggiungere in prima squadra Mariolino Corso, da Herrera sempre detestato. Il quattordicesimo allenatore interista dell’era Moratti Uno parte bene, ma è comunque battuto dal Milan di Rocco e di Rivera: già si intravede quello che succederà negli anni successivi, ma proprio mentre Herrera si appresta a programmare il futuro con Moratti e Italo Allodi (altro antipatizzante storico di Herrera, per la serie ‘Non occorre essere amici per vincere’) l’Inter è accusata di doping, per la positività alle anfetamine rilevata in un prelievo federale a sorpresa. Storia che meriterebbe un libro (qualcosa ha scritto Brera, in una biografia di H.H.) e che presenta qualche analogia con la storiaccia bolognese di due anni dopo, ma non divaghiamo e torniamo ad Herrera. Che viene sospeso mentre ha già la testa altrove, visto che la Spagna gli ha offerto di guidare la Nazionale (da lui oltretutto già allenata) al Mondiale cileno. Offerto almeno secondo il suo racconto, perché in realtà è lui che si è proposto a costo zero (Herrera!) per rilanciare la sua immagine.
Nel frattempo l’Inter ed in particolare Allodi scandagliano il mercato alla ricerca di un successore, e la scelta cade sull’emergente del momento, Edmondo Fabbri, che con il Mantova ha ottenuto tre promozioni, passando dalla D alla A. Insomma, un po’ il Sacchi dell’epoca, a parte il fatto che Sacchi in serie A il Parma non ce lo ha portato. Dopo qualche tentennamento Angelo Moratti lo ingaggia: ha deciso che sarà il suo quindicesimo allenatore. Intanto Herrera, informato di tutto, sogna di portare sulla vetta del mondo una squadra male assortita, un misto di campionissimi al tramonto e di giocatori medi. Nella rosa c’è nientemeno che il trentaseienne Alfredo Di Stefano, convocato a furor di popolo. ‘La Saeta Rubia’ (ma in Argentina era chiamato anche ‘El Alemàn’), dopo cinque Coppe Campioni vinte e mille prodezze su tutti i campi vorrebbe chiudere la carriera con il botto (in realtà giocherà altri due anni nel Real, prima di finire nell’Espanyol), ma un infortunio muscolare e l’antipatia di Herrera lo bloccano, lasciando pulita la sua maglia numero sei. Di Stefano non fa polemiche, non vuole far vedere di avere bisogno del Mondiale per essere considerato il più grande. E ha ragione, perché diventerà l’unico ad entrare nell’Olimpo del calcio senza aver giocato nel torneo più importante.
Anche la sorte è contro la Spagna, che capita in un girone con Brasile, Cecoslovacchia (cioè quelle che saranno le finaliste) e Messico. Esordio a Viña del Mar contro la Cecoslovacchia, il 31 maggio. Herrera riesce a fare a meno di Di Stefano, ma l’opinione pubblica e la federcalcio spagnola lo costringono a mettere in campo l’immenso ma ingrassato Ferenc Puskas, a otto anni dal ‘suo’ Mondiale, giocato con l’Ungheria, oltre a Santamaria e Gento, anche loro non particolarmente graditi al tecnico. Di quella partita abbiamo letto diverse cronache ma visto solo un servizio, realizzato da un inglese, quindi non sospettabile di essere filo-spagnolo: nel primo tempo dominio assoluto della squadra di Herrera, con un Gento formato Real, un Suarez indemoniato e alcune parate strepitose (in particolare su Puskas e Suarez) di Viliam Schrojf, uno dei più grandi portieri dell’epoca ma passato alla storia come un mediocre per i due errori nella finale con il Brasile. Solo nel finale la squadra guidata da Vytlacil (e in campo da Masopust) riesce a prevalere, con un gol di Josef Stibranyi. Polemiche a non finire e Spagna costretta a giocarsi tutto il 3 giugno, contro il Messico dell’eterno Carbajal, che gioca una partita di grande livello ma non può impedire a un minuto dalla fine il gol di Joaquin Peirò, proprio il futuro interista, pronto a sfruttare un respinta corta dopo un tiro di Gento. Successo meritato, stando anche alla quantità di occasioni sprecate dallo stesso Peirò, da Puskas e da Martin Vergès.
Il 6 giugno, con il Brasile, sempre a Viña del Mar, l’appuntamento con la storia: Pelé si è fatto male contro la Cecoslovacchia, ma in campo ci sono tutti gli altri (Gilmar, Djalma e Niton Santos, Garrincha, Didì, Vavà, Zagalo non ancora Zagallo) oltre al sostituto di Pelé, Amarildo. Herrera prova la magata: fuori Del Sol, Santamaria e addirittura Suarez, con lancio di Adelardo. Gli dice subito bene: il Brasile sembra in confusione, e al 35’ un tiro da fuori area proprio di Adelardo, servito da Gento, sorprende Gilmar. Come in altre cinquecento occasioni si è visto e si vedrà, il Brasile inizia a macinare il suo calcio. Ma questa volta non sfonda. Venti minuti dalla fine, Spagna ancora in vantaggio, Herrera urla ai suoi difensori di concedere il tiro da fuori, piuttosto che rischiare di farsi saltare: un concetto cestistico di cui a Zagalo non importa nulla, visto che salta Rodri e mette in mezzo, per il guizzo vincente di Amarildo. La Spagna lotta con tutte le sue forze, anche un commovente Puskas sputa sangue. A cinque minuti dalla fine il capolavoro: Garrincha salta secchi due spagnoli sulla destra e alza morbidamente un pallone che di testa Amarildo non può esimersi dal trasformare in gol. Due a uno, la Spagna torna a casa, ed Herrera dopo avere amabilmente definito ‘corrotto’ l’arbitro di Brasile-Spagna, il cileno Bustamante, non sa più quale sia la sua casa.
Già, perché la sua situazione all’Inter non è per niente chiara. Angelo Moratti ha sì ingaggiato Fabbri, ma si sta pentendo, ed Herrera è abile nell’aumentare le sue incertezze. Parlando e parlando. Durante il Mondiale Moratti si è mantenuto in contatto con lui e nonostante questi non sia di fatto più l’allenatore gli fa seguire giocatori interessanti: chissà la faccia di Jair, riserva di Garrincha, mentre l’allenatore della Spagna appena licenziato dall'Inter gli offre un contratto con l’Inter. A torneo finito, il pentimento definitivo: si decide che Herrera è un allenatore di valore internazionale, Fabbri solo un emergente molto bravo. Angelo Moratti ha intuito che sarà un duro come Herrera a far vincere tutto alla sua Inter: così sarà. Con tanti saluti a Fabbri, che di lì a poco, diventerà proprio il c.t. azzurro. E qualcuno ancora oggi si chiede perché non abbia puntato sul blocco dell’Inter di Herrera…
Stefano Olivari, in esclusiva per La Settimana Sportiva.
18 ottobre, 2007
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