Da oggi San Siro non è più la Casa del Milan. Molto coerente con il contesto più ampio la notizia che i soliti dirimpettai del naviglio, dopo il nostro stadio, si siano fatti intitolare anche il piazzale antistante. D'altronde. Da Pillitteri a Moratti, la giunta comunale della nostra città ha anche cambiato colori, ma sempre e solo la razza padrona quando è al potere avverte l'urgenza dell'autocelebrazione. Con buona pace degli alleati politici. E sia: allo stadio Giuseppe Meazza, in piazza Angelo Moratti, noi Rossoneri non ci vogliamo più mettere piede. Non perderemo un grande spettacolo di calcio, s'è visto. Se mai, ci risparmieremo qualche mal di stomaco. D'altronde. Siamo Rossoneri e abbonati a San Siro da prima di Berlusconi. Nell'accezione di era presidenziale, s'intende. Il nostro di prima era un Milan dal blasone un po' sdrucito, ma indossato sempre a testa alta. Si perdeva quando c'era da perdere, e lo si faceva con dignità. Incazzandosi a morte, sicuro, ma senza mai arrampicarsi sugli specchi. Figurarsi pubblicare dossier. Chi ce li avrebbe pubblicati, d'altronde? Si perdeva (e spesso) anche quando c'era da vincere, perché la razza padrona in Italia è sempre stata Inter e Juve. Quelli per l'appunto del Derby d'Italia, come si compiacciono ancor oggi di chiamarlo i bauscia nostalgici del Giuan Brera fu Carlo.
Inquadrare in questo scenario l'avvento del Cavaliere (nel mondo del calcio, e dintorni) aiuta a capire una varietà di fenomeni storici (del mondo del calcio, e dintorni): dal famoso patto d'acciaio con la real casa sabauda (un patto commerciale per la ripartizione di diritti televisivi, che al nostro Milan è costato un paio di scudetti sul campo e qualche altra penalità) fino a Moggiopoli, che non è stato altro se non un poderoso atto di restaurazione del potere. Perciò ho scritto in principio che autointitolarsi il piazzale, oltre lo stadio, è splendidamente in linea coi tempi. E perciò scrivo, e confesso, che mi manca il Milan di prima. Il mio Milan di bambino, quello degli Anni Settanta: quello di Vincenzina e la fabbrica, quello della stella del grande Nils. Ma quello anche delle due Serie B, una a pagamento e una gratis , come diceva l'Avvocato "vero". Anni in cui il futuro Cranio Lucente - probabilmente - la domenica presto partiva da Monza con l'Argenta alla volta di Torino, per andare a vedere il Michel. Mentre il futuro Signore delle Antenne - dico sempre probabilmente - preparava un dettagliato business case per valutare quale dei due football club di Milano fosse più sinergico al programma.
Il programma era cambiare l'Italia a cominciare dal mondo del calcio, e dintorni. Ma questo, noi Rossoneri romantici, lo abbiamo capito solo da poco. D'altronde, non vorrei mai essere frainteso. Più volte ho scritto qui e ribadisco: grazie di cuore, Presidente, per tutto quello che ci hai regalato in questi vent'anni, inimagginabili prima! Forse oggi il progetto Milan non è più sinergico al programma Italia come lo era ieri. Ma allora, mio caro Silvio, ridacci indietro il nostro Milan... quello di prima, se puoi.
06 novembre, 2007
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4 commenti:
Condivido tutta la triste amarezza delle tue parole. Ci aggiungo una fetta di trent'anni in più. C'è una storia milanista che plasma un Dna inequivocabile. Noi siamo la squadra dei cacciavite, operaia, poco vincente, ma rabbiosamente inglese nelle giornate di estro. Poi arriva Rizzoli con Viani, acquista tre svedesi che da ieri insieme calcano i prati del cielo, e diventiamo irresistibili ma sempre un po' nordici, come le nebbie che calavano su SanSiro (con un anello solo) per tutto l'inverno e ti dovevi accontentare di vedere fantasmi che uscivano dalla cortina di fumo o ascoltare il boato dei fratelli della curva opposta. L'Inter giocava sul suo pianeta, noi nel nostro mondo, e due volte all'anno randellate da togliere il fiato e tensioni nervose che ti squassavano il petto, le mani strette con quelle della Tata, sino al delirio finale o alla più cupa disperazione.
Perché allora una sconfitta non era un aperitivo ma un veleno da bere sino all'ultima goccia, almeno sino al mercoledì, in una giungla ostile di avversari che ti sbertucciavano a scuola, in ufficio, per strada.
Poi venne il Goldenboy a darci quel tocco di raffinatezza e svenevolezza abatina, che ci consegnò il passaporto per il club delle grandi. Ma noi eravamo diversi perché quando mettevamo il sigillo era senza favoritismi, stravincendo e giocando extralusso.
I padroni si dividevano sempre scudetti, stelle ed arbitri amici, e quando ci vedevano troppo forti avevano pronta la dinastia Lo Bello per castrarci al momento opportuno, verso aprile, quando i punti persi diventano Everest inscalabili. Queste erano persecuzioni, signor Onestone, e quando non bastava l'arbitro si chiedeva aiuto all'amico concessionario Fiat di Verona perché all'ultima giornata facesse giocare i suoi scagnozzi alla morte, contro ogni regola non scritta ma sacra dell'ultima tappa.
Poi sei arivato tu, Silvio, ed hai distribuito caviale per 10 anni e ci hai fatto impazzire. I nostri vicini di gradone non erano più gli stessi, erano tutti abbronzati e biondini ma andava bene lo stesso.
Sono passati gli anni, ci siamo persino stancati di vincere, siamo diventati un po' blasé ma dentro sentivamo un buco.
E sì, caro Silvio. Tutto ha un prezzo e tu, quando ci hai presentato il conto, ci hai detto che avevi comprato l'anima del Milan.
Ora sembri stanco del giocattolo, ora lo stadio è sempre più vuoto, ora le parole d'ordinanza non suscitano più fremiti.
Ma da vecchioni degli spalti, ci sentiamo di farti una preghiera. Lasciaci, ma con un ultimo sontuoso regalo: riconsegnaci un Milan operaio, sanguigno, genialoide.
In fondo ti chiediamo solamente di restituirci il nostro Dna.
Danielone
Quando si fa la celebrazione del passato si rischia sempre di scivolare nella nostalgia un po' retrò, di suonare anacronistici. Sinceramente, vorrei aggiungere, io non credo che il calcio degli Anni Settanta fosse tanto migliore di quello di oggi. C'era lo stesso doping (forse peggiore, in quanto sperimentale) e purtroppo lo capiamo ora che se ne stanno andando, una dietro l'altra, così tante di quelle nostre "figurine" coi baffoni e i capelli lunghi. C'erano gli stessi maneggi di orologi d'oro e entreneuse (oggi hostess) per addomesticare gli arbitraggi e c'erano le stesse partite comprate e vendute, sul campo e fuori, da giocatori e dirigenti. Con l'unica differenza che, forse, la Stipel non registrava le telefonate. C'erano sicuramente meno antenne e televisioni accese, ma questo era un bene in senso lato, dico per i neuroni della gente. La vera differenza è che tutto quello che c'era "dietro", allora non lo sapevamo. Per cui, nella nostra beata ingenuità, ci sembrava estremamente più bello e poetico. Ma era tutta la società ad essere più ingenua di quella di oggi: si chiama progresso, d'altronde... Ma il quadro a questo punto è completo. Il vestito che non ci siamo mai visti bene addosso è proprio quello (molto brianzolo) dei parvenu al banchetto dei padroni. Dopo di che, resta poco da aggiungere. Se non: Gattuso capitano subito.
Ciao Stefano,
Bell'articolo e sono d'accordo su quasi tutto.. Quasi perchè "la razza padrona in Italia non è sempre stata Inter e Juve" Anzi, dopo Angelo Moratti, Fraizzoli e Pellegrini non sono certo stati a banchettare con l'avvocato Agnelli. E' invece un dato di fatto che con Berlusconi e l'arrivo della triade il vero potere è stato diviso tra via Turati e Torino.
IL COMMENTO DI STEFANO OLIVARI
su La Settimana Sportiva
La posta della Settimana,
56. La vera anima del Milan
(8 novembre 2007)
Ci mettete in difficoltà, perché anche noi siamo schiavi della nostalgia (sia pure non del Milan) e della sensazione di avere perduto qualche cosa di importante, senza sapere bene che cosa (azzardiamo: la nostra giovinezza). Però non siamo d'accordo nel dare un carattere unico, o più caratteri coerenti, ad una società nella sua storia: in diverse epoche il Milan è stato la squadra dei grandi industriali, degli operai, degli artisti, della classe media desiderosa di migliorare. Esattamente quello che, in epoche diverse, sono state Inter, Juventus, eccetera. Pensate solo ai comici di sinistra, su cui bisogna mettersi d'accordo: o sono tutti nerazzurri o sono tutti rossoneri. E Pirelli aveva una fede diversa da Tronchetti Provera, per non parlare della volubilità della classe media che a seconda della fascia di età e del momento politico solidarizza con il perdente o sogna di 'avere i soldi' come il vincitore, che 'è stato più bravo, perché alla fine contano le vittorie'. Insomma, vale per tutte le tifoserie: non siete, non siamo unici. Però è vero che la storia di una società è fatta da chi ci ha giocato e da chi ha guardato giocare: senza tifo il calcio non esiste, non può esistere, perchè come spettacolo puro è noioso e come sport ha contenuti tecnici, etici ed atletici inferiori al novanta per cento delle discipline presenti all'Olimpiade. Poi esistono anche i fatti, che dicono che in quasi 22 anni il Milan di Berlusconi è stata la squadra di club italiana che più ha fatto parlare di sé nel mondo, per la presenza continua ad alto livello ed una filosofia vincente, al di là delle vittorie internazionali, che ha dato un calcio al vezzo italiano della finta modestia e della rassegnazione. E tutto questo senza addentrarci nelle singole miserie o nel discorso trofei, che offre considerazioni scontate: crediamo che un Milan deberlusconizzato lo sognino di più gli antimilanisti militanti che i milanisti nostalgici di una squadra lontana dai centri del potere (comunque presidenti nell'era Rivera erano stati anche Sordillo e Carraro...). L'anima del Milan è l'anima di chi lo guarda, cioè la vostra: non è Berlusconi, Liedholm, Carotti, Van Basten, Rivera o Ba, ma il modo ed il momento in cui li avete visti. E' anche padre e figlio che mandano una mail insieme: quale altro motivo al mondo potrebbe indurre padre e figlio a mandare una mail insieme?
da: www.settimanasportiva.it
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