05 marzo, 2008

UN PASSO AVANTI

Cesc e i suoi fratelli, sipario sui campioni.

[LaStampa.it] Venticinque minuti, è il tempo di un cambio generazionale sopra un campo di pallone. Quanto ci mettono i ragazzi dell’Arsenal a prendere le misure e il coraggio, a tirar fuori la furbizia a sconvolgere l’ordine costituito. Non è una rivoluzione violenta e neanche un ’68 sbandierato con la forza e gli slogan di tattiche mai viste. Wenger li piazza bene e poi li lascia fare ed è questione di un centimetro per volta, non di un colpo di stato. Si riparte da una botta sulla traversa: Adebayor all’andata e Fabregas al ritorno. Due ammaccature sopra il potere che crolla a 5’ dalla fine. Sempre loro: Fabregas e Adebayor, vent’anni uno, 24 l’altro e non hanno più voglia né tempo di farsi dare ancora dei bambini. Dall’altra parte possono solo provare a resistere e non perché non sanno che altro fare, ci credono. Mangiare il tempo, spegnere i tiri avversari, sbiadire l’ardore di chi non si sente più un giovane, ma rivale, pronto e competitivo. Hanno una sola via per uscirne e la provano. È esperienza contro consapevolezza ed è lì che diventa difficile e si inceppa il sistema, prima era storia contro voracità e vince sempre la storia: troppo solida per buttarla giù a morsi. Ma ormai Fabregas non è più talento acerbo, Adebayor non è più tutto paura di sbagliare, Flamini non è più il cocco di Wenger e Hleb è geniale quanto Pirlo, ma più veloce di lui e in serata decisamente migliore. Ancelotti si arrende: «Abbiamo fatto tutto quello che era nelle nostre possibilità». Il duello ha cambiato prospettiva, all’improvviso sono convinti anche i giovinastri, più maliziosi che spavaldi: non iniziano facendo gli sbruffoni, si insinuano e la vecchia guardia non se lo aspetta. Restano fermi dentro il loro passato: attaccanti sganciati e sollevati da ogni responsabilità perché è così che il Milan ha già vinto, anche l’ultima Champions. Però questa è pure peggio di una finale, è una partita di confine. Segna il limite, il passaggio di consegne. Lo sa bene Berlusconi cosa vuol dire trovarsi davanti la faccia nuova, che sforzi richiede avere a che fare con quello che tutti battezzano fresco, diverso, rapido e infatti prima della partita si piazza nel corridoio che porta al campo e stringe la mano a ogni calciatore con la maglia rossonera. Di solito regala pacche e sorrisi, entusiasmo americano, ma questo giro ci mette più presenza e non dice una parola. Si ferma solo su Kakà e allunga l’altra mano per toccargli la spalla come fosse un’investitura. Dà fiducia al talento e il pallone d’oro gli risponde con un cenno sereno. Non basterà. Il Presidente può solo congratularsi e guardare la Champions sparire dall’orizzonte: «Non ci hanno fatto vedere palla». In campo Kakà è costretto ad arretrare, non è una partita da giocare sulla memoria di quanto è stato. Qui non serve quello che ha funzionato prima, perché Flamini sta metri oltre la zona affollata e chiama fuori i suoi ed esce Inzaghi. Qualcosa più di una sostituzione. Il pubblico saluta l’uomo che ha deciso la finale 2007 contro il Liverpool, l’attaccante che ha rapinato aeree e scardinato partite, se ne va la possibilità di ripetersi. Anche Gattuso non funziona, non è una partita fisica, viene saltato e non solo fisicamente. Superato da una corrente, da un altro modo di far girare la palla che non prevede ringhi solo passaggi e freschezza. Lo spiega Wenger: «I miei sono cresciuti, uscivano da una brutta settimana e hanno dimostrato di avere la maturità e la calma per venir fuori nel momento che conta. Quel che mi dà soddisfazione è che la squadra era pronta per questa notte». Al Milan resta Pato, l’unico pezzo di futuro a disposizione. Ha ancora le spalle strette, è il giocatore che capisce meglio cosa fare, ma non ha ancora bene idea di come. Nel primo tempo spreca, nel secondo cresce, ma non gli riesce di farlo abbastanza in fretta. Ancelotti gli parla, di continuo, ci sono momenti in cui si concentra solo su di lui, un corso accelerato: «Come dimostrare di essere campioni». Lui esegue, trova degli spazi, poi viene spazzato via dall’onda. Kakà impreca e non lo aveva mai fatto, il pubblico applaude perché sa cosa ha visto ed è giusto salutare, omaggiare e ringraziare. È finito un mondo, cambiata un’epoca e il campo è di un’altra generazione.

Il Punto, di Roberto Beccantini.

Cesc Fabregas, vent’anni. Emmanuel Adebayor, ventiquattro. La sentenza è nell’età, più che nei nomi e nei gol. La gioventù dell’Arsenal spazza via le rughe e le stampelle del Milan. Giù il cappello. Verdetto limpido. E pochi rimorsi: se non le due punte (più Kakà) schierate da Ancelotti. Visti i triboli patiti a metà campo, perché non uno sherpa in più? Dettagli, comunque. Prima o poi doveva succedere. È successo. Il Milan gioca sulla memoria; l’Arsenal, a memoria. Due grandi squadre: una alla frutta, l’altra al primo. Applausi a entrambe: è così che si fa. Il pressing alto dei «gunners» ha ingoiato le rare sgommate di Kakà. Era lui, la differenza in Europa. Era. Berlusconi dovrà rinfrescare la rosa. I «quaranta» di Paolo Maldini commuovono, ma per far strada in Champions servono altre risorse. Un Pato meno acerbo, per esempio. Non si può sempre e comunque giocare a poker. Il giorno in cui al tavolo si siede un Arsenal - e la spalla di Inzaghi non funziona - finisce che ti spennano. Ho sbagliato pronostico. Ho trascurato i talenti di Wenger. Fabregas ha acceso i suoi, non altrettanto è riuscito a Pirlo. Gran duello, il loro: anche se a distanza. E Flamini, che pugnale nel costato. L’aggressività e la freschezza degli inglesi (per modo di dire) hanno scavato il fosso. Era il migliore dei Milan possibili, avaro, sgonfio, incollato al mestiere e a un’idea. Troppo poco. La baracca l’hanno tenuta su i difensori e Kalac. Oltre alla leziosità endemica degli Adebayor. Cruciale la staffetta fra Eboué e Walcott. Ha disarcionato Maldini. Rifornire Kakà, Inzaghi e Pato non era facile. E vigilare in otto, nemmeno. Al Milan, a «questo» Milan, non possiamo che dire grazie. È arrivato nudo e cotto alla meta, la qual cosa - infortuni a parte - chiama in causa i vertici societari. Da ieri sera, c’è un solo obiettivo: il quarto posto in campionato. Gira e rigira, chi ci rimette è sempre la Juventus.

Ancelotti: Io non me ne vado.

«Adesso dovete prepararvi bene per il campionato, da qui in avanti giocheramo dodici finali». Silvio Berlusconi e Adriano Galliani provano a consolare i giocatori rossoneri, ma all’interno dello spogliatoio del Milan c’è solo delusione. La società ha subito indirizzato il proprio pensiero al quarto posto in serie A perché come dice Berlusconi a Mediaset: «Non arrivare in Champions sarebbe inconcepibile». Kakà chiamerà la sconfitta contro l’Arsenal «un brutto incidente». Ancelotti non si sente in bilico: «Dimettermi? Non credo proprio che le cose andranno così, questa squadra ha vinto tanto e siamo pronti per ricominciare». I tifosi sono convinti che il ciclo sia finito, Ancelotti che ha ricevuto un coro d’incoraggiamento dalla Curva, però non è d’accordo: «Fin quando Berlusconi resterà presidente il ciclo non finirà». Il Cavaliere d’altra parte allontana l’ipotesi Lippi: «Carletto resta». Kakà puntualizza: «A fine stagione alcuni giocatori smetteranno e la società dovrà fare le sue valutazioni». Berlusconi vuole rifare il contratto a Ronaldo e riportare Shevchenko a Milanello, gli ultras, invece, si aspettano investimenti seri e duratori. Saranno mesi caldi per tutti.

Secondo un copione già scritto, il penultimo passo verso l'ecatombe finale di maggio. Ieri sera a San Siro, una lezione solare di calcio: dai tempi del Maestro di Fusignano non vedevo una squadra imporre il proprio gioco attraverso un possesso palla così geometrico e applicato a ritmi tanto ossessivi. Il pervicace di Reggiolo, dal canto suo, ha mandato il nostro povero Diavolo al massacro, schiacciando i due incontristi (sfiancati per mancata rotation, da noi detto turn-over) a ridosso della linea dei difensori e isolando le due punte sessanta metri più avanti: per raggiungerle, cavalcate di sessanta metri a testa bassa di Kakà in versione Gondrand (al secolo, la buonanima di Giancarlone Pasinato) o in alternativa, lanci di sessanta metri di Pirlo in versione pirla (leggasi appoggio sui piedi dell'avversario nell'azione che ha scatenato il gol del vantaggio, idem pochi minuti prima a ridosso dell'area di rigore, episodio miracolosamente oscurato da tutti i cronisti e da tutti gli highlights televisivi...). Come a dire, il calcio degli anni sessanta.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Una lezione si incarta e si porta a casa. Pirlo era ubriaco di corse perché il duo Gatto-Ambro moriva dietro 4 avversari. La panchina, come giustamente ha detto il Mondo, non ha capito il non-senso tattico di schierare 3 punte, sguarnendo la mediana, contro una squadra che del centrocampo fa il suo punto di forza quali-quantitativo.
La verità è che giunti alla fine della corsa non si ha più lucidità per leggere le partite e per interpretarle. Quanto a Kakà, o lo si ferma in officina per il tempo necessario o anche lì vivremo presto di bei ricordi.

Danielone