06 novembre, 2007

IL GRANDE NILS

Addio Barone, genio perbene.

Ognuno prenderà il grande Nils per la giacchetta che preferisce, tirandolo ora qui ora là secondo le molteplici vite vissute, ma l'allenatore svedese è stato uno dei grandi interpreti del sogno, avendo portato due intere popolazioni - quella dei rossoneri e quella dei giallorossi - a ottenere ciò che sembrava impossibile: gli uni, l'incredibile stella del decimo scudetto; gli altri, il primo vero democratico tricolore della storia. Ciò che lui ha usato per stabilire un contatto con gli dei del calcio, sono due elementi solo apparentemente dissimili tra loro come scienza – la sua, immensa – e ironia, altro aspetto decisivo del carattere. Mischiate opportunamente, hanno plasmato un uomo-allenatore che poteva tranquillamente insegnare calcio senza la schizofrenia dei suoi tempi. Sono stato fortunato a lavorare con Liedholm, come giornalista e poi anche al Milan: ho visto cose che voi umani non potete neppure immaginare.

Silvio Berlusconi con il BaroneCome quella volta che, nel corso della stagione, uscì la notizia che Berlusconi aveva assunto Sacchi. Sulla panchina del Milan però c’era lui. Galliani si precipitò a Milanello, negando tutto. Incalzato dai cronisti, si rivolse a Nils per cercare aiuto: «Mister – disse l’ad rossonero – mi dia una mano lei...». Liedholm lo guardò con il suo solito mezzo sorriso, e poi gli allungò veramente la mano, lasciandolo di sasso. Ora lo vedo ancora in mezzo alle sue vigne piemontesi, il cane lupo alle costole, lo sguardo sereno di una persona perbene.

di Michele Fusco, su Metro di oggi.

7 commenti:

Anonimo ha detto...

LIEDHOLM, ADDIO BARONE

06/11/07 - Uno svedese con l'ironia del genio. Ha lanciato Bettega, Ancelotti e Paolo Maldini. Insegnava un calcio fatto di possesso palla e difesa a zona. Lui da una parte, Trap dall’altra.

L'ex tecnico di Roma e Milan, Nils Ledholm, è scomparso ieri a Cuccaro, nel Monferrato. Aveva 85 anni.

A un amico con il quale pranzò nei mesi scorsi a Cuccaro, Nils Liedholm raccontava di come si allenasse tutti i giorni al pallone con i suoi cani: «E’ un esercizio utilissimo - diceva - perché loro si muovono come se fossero dei difensori». E al commensale che gli chiedeva se alla sua età avesse smesso quella pratica, replicò: «Non è per l’età, è che sono morti i cani». Questo era Liedholm, l’uomo che tratteggiava il calcio come un racconto surreale ma ne spremeva la sostanza negli scudetti vinti e sfiorati, nei giovani che cresceva, nei contratti che lo resero ricco da soddisfare il suo sogno di bambino: fare l’agricoltore. Nel ‘73 comprò un appezzamento tra le colline del Monferrato, Villa Boemia, e si mise a produrre vino. Per lui non ce n’era di migliore perché Nils, il Barone, affrontava la vita convinto di trarne sempre il meglio.

E’ stato un grande che ha attraversato il secolo del calcio. Era nato l’8 ottobre 1922 in un paese di 9 mila anime, Valdemarsvik, sulla costa orientale della Svezia. Lì avevano impiantato nell’800 una delle più importanti concerie d’Europa e lui raccontava di essere cresciuto percependo il fetore delle lavorazioni mescolato al profumo dei prati dove giocava. Era bravo ma non fu un talento precoce: aveva 26 anni quando partecipò alle Olimpiadi di Londra. Vinse la Svezia, Nils fu proiettato dal piccolo Norrkoeping nel calcio dei professionisti: lo comprò il Milan insieme a Gren, il «professore», e al pompiere Nordahl.

Nacque il Gre-No-Li. Un attaccante di formidabile potenza, un cervello di straordinarie geometrie e un centrocampista completo per quei tempi di calcio rallentato, anche se lui sosteneva che «i grandi giocatori sarebbero grandi in qualunque epoca perché sono i più facili ad adattarsi». Vinse quattro scudetti. «Noi tre rappresentammo il momento più elegante del calcio italiano - raccontava nel suo italiano mai perfetto -, proseguito da Schiaffino e poi da Rivera. Fu la scuola del Milan, nella quale si sono formati allenatori come Trapattoni, Bagnoli, Radice. Quello per cui la gente si entusiasma adesso, nasce da lì». Di se stesso alimentava leggende. «Una volta a San Siro tirai così forte che la palla picchiò contro la traversa e ritornò nella nostra area». Oppure: «Sbagliai un passaggio e si sentì per tutto lo stadio un oh di meraviglia. Da due anni non ne sbagliavo uno». Sorrideva persino raccontando la finale persa ai Mondiali del ‘58 contro Pelè. Aveva segnato il primo gol, uscì per infortunio sull’1-1. «Vinse il Brasile - diceva - ma non c’è mai stata una squadra più forte di quella Svezia».

Quando a 39 anni chiuse la carriera di calciatore, aprì quella di allenatore. Dal Milan del campo al Milan in panchina. Non fu precoce e fulmineo nemmeno come tecnico. «Perdeva un’infinità di ore per insegnare il calcio ai giovani - ricorda Ancelotti - e si fermava a tirare ai portieri, la cosa che lo divertiva di più». Ancelotti lo volle ventenne alla Roma, strappandolo all’Inter: come aveva fatto a Varese con Bettega e poi con Baresi ragazzino nello scudetto della stella milanista e con Paolo Maldini. Ogni tanto smarriva il fiuto. Per lui Valigi e Strukely sarebbero stati grandissimi: chissà cosa vedeva quelle volte ma la conta dei talenti supera largamente quella della cantonate.

Insegnava un calcio fatto di possesso della palla e difesa a zona, leggiadro ed elegante. Quasi signorile. Non c’eravamo abituati, ci voleva la sua testa per inventare un libero come Di Bartolomei. Da una parte Nils e dall’altra il Trap nell’Italia che si divise sul fuorigioco di Turone, anno 1981, un punto di non ritorno. Lui lo commentò senza acredine sul filo dell’ironia: «Abbiamo buttato alle ortiche un’occasione unica ma la Roma è una squadra di tradizione giovane e può darsi che siamo stati ingenui». Altri tempi, sicuramente altro stile. Lo scudetto l’avrebbe vinto due anni dopo e la Coppa Campioni l’avrebbe gettata nella finale dell’Olimpico, ai rigori contro il Liverpool, ultimo grande atto di una carriera straordinaria, percorsa tante volte sul tratto Milano-Roma da dimenticare le altre fermate, a Monza, a Firenze, a Verona. Con il tratto del maestro, con l’ironia del genio che tenne fuori un giocatore dicendogli: «Tu hai già giocato ieri», peccato che la partita del giorno prima non si fosse disputata per il maltempo. E quello, sorridendo, andò in panchina.

da: www.lastampa.it

Anonimo ha detto...

ADDIO AL BARONE LIEDHOLM

Pubblichiamo una recente intervista di Nils Liedholm col nostro Luigi Garlando.

Il buon vino che esce dalle cantine Liedholm vale da copertura. Come i fiori per il Gruppo TNT. In realtà a Villa Boemia si continua a produrre ottimo calcio. Prendete questi quattro pali piantati in giardino. "I miei nipoti giocano uno contro uno. Io sto con chi è in possesso di palla. Paolo, 15 anni, ha il mio sinistro, ma gli piace studiare, forse diventerà giornalista. Andrea, 10 anni, fa cose che a me non riuscivano a 15: palla sotto la suola e via. Io gli dico i numeri: 8, 0... E lui, palla al piede, disegna quei numeri sul prato. Gli alleno il dribbling, la tecnica, prima che qualche allenatore gli imponga una partita a due tocchi". Nils Liedholm, insegna calcio doc quando pensa, quando ricorda, quando respira. Perciò non lo interrompiamo più.

ROMA - "Paolo è milanista, Andrea tifa Roma. Totti, con Del Piero, è il miglior giocatore italiano: ha la tecnica di Rivera, in più il peso, che però non gli toglie agilità. Cassano ha fantasia anche quando parla e scherza. Deve imparare quando è il momento di stare serio. Finché sono rimasto io a Roma non c' era ancora riuscito. Ma l' importante è quella fantasia. A me diverte anche quando parla".

ZLATAN - "Ero a Norrkoping con mio figlio. Volevamo andare a vedere Ibrahimovic che giocava in B. Ne parlavano un gran bene. Ci fermò un contrattempo. Il giorno dopo leggemmo che aveva sputato agli avversari. Era il capo di una banda di strada a Malmoe. Ora mi dicono che è migliorato. È bravo".

MILAN - "Di Ancelotti ricordo soprattutto le urla di dolore quando in spogliatoio gli manipolavano il ginocchio operato mentre noi ci allenavamo, alla Roma. Quel dolore lo ha reso più forte. Anche contro le critiche che ha sopportato. E' stato bravo a inventarsi Pirlo in quella posizione: io avevo dei dubbi, invece il ragazzo si è dimostrato più guerriero di quel che pensavo. E partendo da dietro ci guadagna. Il Milan può cambiare spesso assetto, è imprevedibile. Ha fatto vedere un calcio di qualità, apprezzato anche all' estero".

CATENACCIO - "Ma non si deve criticare solo il catenaccio. Ci si difende anche a centrocampo, con mille falli tattici. Io ripetevo ai miei giocatori: se fai fallo sbagli due volte. La palla resta a loro e mandi un messaggio di debolezza. Io mi allenavo molto, contro un giocatore o due, per portar via palla senza fare fallo".

LA PRIMA - "Nel ' 79-80 vincemmo la coppa Italia, dopo aver battuto 4-0 il Milan a San Siro, nei quarti. Se Rivera quel giorno disse: "Potevo sperare solo nella nebbia", significa che la mia Roma giocò proprio bene. Avevo un gran gruppo. Avevo Ancelotti. Capello era nel Milan e segnò al ritorno. Era il Milan della mia stella. C'era Novellino che, quando sedeva vicino a me in panchina, parlava sempre: segno che sarebbe diventato un buon allenatore".

LA SECONDA - "Nell' 80-81 vincemmo in finale col Torino, ai rigori. Il primo lo tirò Ancelotti, l'ultimo Falcao, che non ne aveva calciato uno da quando aveva 13 anni. Era molto sensibile Paulo. Era un leader strano. Consigliava al leader vero le cose da dire in spogliatoio. Sapevo che avrebbe sofferto quella passeggiata da centrocampo al dischetto, con 3 miliardi di occhi addosso. Perciò lo tenni fuori dalla lista dei rigoristi contro il Liverpool. Sbagliarono anche due campioni del mondo. Quella passeggiata pesa. Nell' 84 avevamo perso ai rigori anche un torneo in Olanda. Doveva calciare Cerezo, ma aveva già regalato la maglia a degli handicappati. Inzaghi che ruba rigori a Pirlo? Deve tirare sempre il rigorista, perché l' eventuale errore rende nervosa tutta la squadra. Io una volta calciai un rigore così forte di sinistro, all' incrocio, che il portiere della Triestina non credo l' abbia visto. Ma in genere la piazzavo".

LA TERZA - "Sette giorni dopo la sconfitta col Liverpool, affrontammo il Milan all' Olimpico. Ci aspettavamo lo stadio vuoto, trovammo sessanta mila ad applaudirci. Quella passione ci diede la carica per vincere la finale di coppa Italia contro il Verona di Bagnoli".

ANGOLI - "Quando conobbi mia moglie, le dissi: "Noi svedesi abbiamo inventato la ginnastica". Non c' è mattina che non abbiamo fatto ginnastica insieme. Guardatela: sembra una ragazzina. Io, come ogni estate, mi allenerò a Valdemarsvik, sul campo dove ho iniziato, con i miei vecchi amici. Siamo rimasti in 2-3. Ogni estate calcio 5 angoli da destra e 5 da sinistra, mirando la porta. L' ultima volta ho fatto due gol da destra e due da sinistra". Meglio un angolo di Liddas che tutte le lavagne del mondo.

da: www.gazzetta.it

Anonimo ha detto...

LIEDHOLM, CALCIO E BARBERA

Riproponiamo una delle ultime interviste rilasciate a "Repubblica" dal tecnico svedese. Era il 2 gennaio 2005.

Nils Liedholm si fa aspettare, deve finire la seduta di fisioterapia. "Ho fatto con le braccia venti sollevamenti di venti chili" racconta poi fiero, seduto sulla poltrona, dove smaltisce il malore dell'estate. Villa Boemia è immersa nella nebbia, le vigne sono nascoste. Maestro, siamo ancora qui, ma ci farà bene questa nostalgia? "A me di sicuro no, e a voi?" Certamente no, ma il calcio adesso sembra così malato che si ha voglia di sentire qualche parola di saggezza dall'ultimo santone. "Non dite così, non sono l'ultimo. Ho avuto decine di bravi giocatori e adesso sono tutti allenatori!" Si diverte ancora a prendere in giro se stesso, gli alunni, chi lo ascolta, ovviamente più gli alunni e chi lo ascolta. "Mi telefonano in tanti qui per sapere come sto, per salutarmi. Ha chiamato Capello, ha chiamato Ancelotti. Con Carlo ci facciamo sempre delle grandi risate. Quando era giocatore invece era sempre molto silenzioso: si vede che stava studiando".


Villa Boemia è uno strano posto, dovrebbe essere un museo del calcio e invece si cura solo di vino: ma ugualmente emana sapienza e umori che il santone sparge livemente intorno. Che cosa le chiedono i suoi 'alunnì , consigli, idee. schemi? "Mi dicono che non vengono capiti, si lamentano dei dirigenti. Io non dico niente loro, non è che vengano a studiare da me. Ma mi sembra che abbiano preso degli insegnamenti da me. Adesso gran parte delle squadre puntano al mantenimento della palla". Eh già, cominciò lei con Roma, trent' anni fa. "Certo, è meglio stancarsi avendo la palla che stancarsi dovendo rincorrerla".

Il pellegrinaggio dalla Svezia è ininterrotto: prima sono passati 26 membri della federazione, poi una quarantina di soci di un gruppo guidato da Tomas Nordahl, il figlio di Gunnar. Salutano Nils e partono con il vino, una buona scusa per venire fin qui, a Natale l'intera Svezia ha stappato il Barbera liedholmese. Da Norkkoeping gli hanno chiesto maglie di quando giocava. "Non ne ho avuta nessuna, le restituivo sempre, perché le maglie erano della società". Insomma, non le ha mai tirate in curva agli ultrà. Della nazionale campione olimpica del '48 sono rimasti solo Liedholm e il portiere Torsten Lindberg, che ha 86 anni.

"Fa parte a Malmoe di un club di gente che fa il bagno a mare tutto l'anno". Acqua gelata d' estate gelata d' inverno. Ma è stata più importante quella vittoria o il secondo posto del '58, dietro il Brasile? "Più importante la vittoria olimpica. Venivamo dalla guerra, eravamo stati isolati, non sapevamo cosa potevamo valere". Liedholm olimpionico, e chi se lo ricorda mai in mezzo a Falcao, Schiaffino, San Siro e a tutte le barzellette che ha raccontato nella sua vita. Maestro, e quando nella finale di Stoccolma siete andati in vantaggio, avete pensato che potevate vincere? "Il guaio di questa finale è che noi non avevamo visto nessuna partita del Brasile prima. Loro invece ci conoscevano". E poi avevano tirato fuori il genio di Pelè. "Ma l'impressione che ha lasciato Pelè quel giorno non è nulla in confronto a quella che lasciò Garrincha". Finì 5-2 per il Brasile, per chi non dovesse ricordarlo. "E la medaglia d' oro del '48 è in cassaforte" rassicura Liedholm. Alt. Non divaghiamo, concentriamoci sulle miserie presenti. Torniamo al pane quotidiano: la crisi, gli arbitri, le tv. "Sapete cosa dicono in Svezia? Che Kakà ricorda un poco il Liedholm giovane. Mi piace molto. Io forse ero più potente, ma anche lui, che sembra esile, ha invece insieme intelligenza e forza. E una rapidità che lo fa essere un buon giocatore e anche oltre".

Ma qual è la partita che le è piaciuta di più quest' anno? "Juventus-Milan". Strana scelta, uno 0-0. "Lì meritava di vincere il Milan, Ancelotti è proprio bravo. La Juve mi ha deluso ma penso che possa vincere lo scudetto". Sicuro che guardando questa partita non stesse pensando ad altri Juve-Milan? "Il primo anno che ero in Italia, perdemmo in casa 1-0, loro segnarono e poi noi fummo sempre all'attacco ma senza riuscire a pareggiare. Brera ci criticò tantissimo. Al ritorno ci preparammo in maniera speciale. In panchina c' era l'ungherese Czeizler: allenamenti durissimi e poi da metà della settimana a riposo. Vincemmo 7-1. Era anche la rivalità tra gli svedesi del Milan e i danesi della Juve". Rivalità che non si è vista nel 2-2 chiacchierato degli Europei. Ma mettendo da parte Danimarca e Svezia, che pensa di questo campionato con due squadre in testa e le altre tutte lontane, le piace questa dittatura?

"Ma una dittatura di due squadre è sempre meglio di una dittatura di una squadra sola, non vi pare?" E la povera Roma, che ne sarà di lei? Perderà Totti e Cassano? "Totti ha uno spirito molto romano, con il quale ci si può intendere subito oppure mai. Io penso che non sia la Roma che deve fare grande lui ma lui che deve fare grande la Roma. Lui e Cassano sono particolari, sembrano leggeri ma poi ti danno di più di quello che ti aspetti. E sono molto allegri, e questo è un bene, vuol dire che mettono poi allegria nel gioco che fanno. E un allenatore deve stare su questo loro piano". Cioè, prenderli da parte, raccontare loro delle barzellette? "Certo, perché no?" Nel salone del camino c' è una foto, Liedholm che stringe la mano a papa Wojtyla. Ci si immaginava di trovare lui che si abbraccia a Di Stefano. "Ah, il più grande di sempre, un motore abbinato alla tecnica. Alla vigilia di Roma-Real Madrid quanto siamo stati insieme a ricordare quella volta che... " Certamente la finale di Coppa dei Campioni del '58, che il Milan perse 3-2 ai supplementari mangiandosi gol su gol: di nuovo la nostalgia che ci prende. "Sapete perché i campioni del passato sembrano più grandi di quelli di adesso? Perché allora giocavano con compagni più scarsi, e allora la loro luce brillava molto di più. Ma anche adesso che lo so preferisco il calcio degli anni '50". Alcune rivoluzioni fa: ma ha visto che Berlusconi si è dimesso? E' in buoni rapporti con lui? "Ottimi. Quando portò Sacchi al Milan voleva che rimanessi come dirigente ma io avevo la proposta di tornare alla Roma. Ha organizzato una cena a San Siro per il mio 80 compleanno c' erano tutti, lui, Confalonieri, Galliani, i giocatori. Io me lo ricordo da giocatore, l'ho visto tante volte quando faceva il centravanti". Ha visto giocare Berlusconi!? "Oh, sì, era un centravanti velocissimo". Questa è davvero l'ultima battuta da applausi, che combatte una metafora un po' deprimente, la notte che fuori sta scendendo sulle Langhe, nebbia seguita da notte.

Progetti per il futuro? "L'anno prossimo ricominceremo a produrre il 'Raggio di lunà , lo spumante". Riappare così Selmosson, in questo museo del calcio mancato, il laziale diventato romanista. Non potrà venire all'Olimpico per il derby, lo vedrà in tv. "Ma credo che vincerà la Roma". Che dobbiamo dire per lasciarci, forza Roma o forza Milan? "Tutte e due, naturalmente".

da: www.repubblica.it

Anonimo ha detto...

CIAO BARONE
di Tony Damascelli

Ramon Turone stava giocando a calcio tennis e faceva il furbo, una battutina sussurrata verso quel signore in tuta che controllava l’allenamento. Il signore gli andò vicino, lo prese per il colletto della maglietta e gli disse sul muso: «Non ti provare più, capito?». Ramon avvampò nelle gote, sorpreso perché il Barone lo aveva trasformato in un pupazzo in mezzo ai compagni di squadra, in silenzio tutti. Nils Liedholm si porta appresso una fetta di storia grande come lui. Il silenzio di questi ultimi mesi lo aveva accompagnato nella sua esistenza illustre. In silenzio ha scelto di andarsene, quasi chiedendo scusa in questo frastuono di voci e di nulla che è il mondo del pallone. A Roma avevano deciso di battezzarlo Barone, in Patria era già stato definito il Conte, non c’erano nobili nella sua famiglia: «Tranquillo, papà, vado in Italia uno, due anni al massimo e poi torno». Nella casa di via della stazione a Valdemarsvik, sulla costa orientale della Svezia, Nils tornava con il cuore pieno di nostalgie per le betulle e gli abeti, le barche nel porto, la fabbrica di mobili che aveva preso il posto della conceria, il profumo di aringhe marinate. Avrebbe voluto fare il contadino. Scelse il football e a Norkoepping incominciò la sua avventura che l’avrebbe portato in Italia, un anno, due al massimo. Anzi Sessanta.

Villa Boemia, sulle colline di Cuccaro, nel Monferrato, era un presepe che in qualche modo riproponeva le tele svedesi, mancavano soltanto le barche del porto, c’erano le vigne con i profumi di tini e di vendemmia. Il Barone qui si era ritirato, il football, questo football, passava troppo veloce come il treno davanti alla casa in via della stazione. La sua storia è la storia del calcio italiano e mondiale dell’altro secolo. L’oro vinto ai Giochi di Londra nel 1948, il secondo posto nella coppa Rimet nel ’58 contro il Brasile sarebbero stati i riconoscimenti internazionali per una carriera vissuta soprattutto nel campionato di calcio, divisione nazionale serie A. La sua storia erano soprattutto le sue storie che diventano leggende, favole, narrazioni inverosimili. Non subì mai un’ammonizione, il pubblico restava incantato per l’elegante semplicità dei movimenti di quel biondo con le lentiggini sul viso. Elegante e semplice anche nel dire, dopo sessant’anni gli riusciva impossibile pronunciare la zeta, dunque per lui il football sarebbe stato sempre «esesionale». Raccontava ai cronisti gesta e gesti improbabili ma noi sbarbati abboccavamo con tutte le scarpe. Disse che il pubblico di San Siro applaudì il suo primo passaggio sbagliato, tanto era stupito dall’errore di quel Maestro. Aggiunse che una volta gli capitò di vedere il portiere della sua squadra, il Norkoepping, effettuare la parata più grandiosa della storia del calcio svedese: lui, Nils, sferrò un tiro di rarissima potenza che andò a colpire in pieno la traversa avversaria, rimbalzò per tutto il campo costringendo, per l’appunto, il proprio portiere a una parata miracolosa. Diceva di avere ridotto a zero Di Stefano in una partita contro il Real Madrid e quando il collega di Roma gli fece notare che la «saeta rubia», el señor Alfredo Di Stefano, aveva però segnato tre gol in quella medesima partita, il Barone, senza una sola smorfia sul viso e tenendo le mani nelle tasche della giacca, replicò: «Tre gol e basta».

In tasca portava qualche amuleto, dimostrando di essere poco svedese e molto latino. Secondo una corrente di pensiero qualche marinero napoletano doveva aver lasciato il segno nelle terre del nord e Nils da quell’avventura era sorto. Corni e piccoli gobbi, segni zodiacali (i nati sotto la bilancia tutti campioni, lui compreso, anche Giovannelli!), repertorio classico di una fattucchiera. Busto Arsizio era il suo sito di magia, qui teneva casa e ufficio l’ex legionario Mario Maggi, lo stregone che avrebbe risolto, con la sola imposizione delle mani, un’ulcera duodenale di Nils, guai e problemi di ogni tipo, dico dei calciatori: distorsioni, dolenzie, stiramenti, contratture, anche strappi. Nils Liedholm faceva montare sulla sua vettura l’infortunato, fosse anche Rivera, il mago faceva il resto. In verità una volta Rivera venne messo fuori dalla formazione e non per infortunio. Accadde addirittura in un derby, nel novembre del Settantotto, al posto suo tale Sartori, il Milan vinse con gol di Maldera Aldo: «Ianni non ti preoccupare, ci penso io», spiegò il Barone mentre «Ianni non iocava». Ai difensori dava compiti precisi: «Non il pallone in tribuna, vergogna, Fulvio, vergogna», Collovati, educato e diligente come sempre, obbediva, arrossendo per la vergogna. Agli attaccanti spiegava: «Stefano per te non finito allenamento, tu adesso fai tiri in porta, io crosso tu calci», mentre il resto della truppa stava sotto i vapori della doccia calda Stefano Chiodi saltava sul prato di Milanello attendendo i cross perfetti del Barone, sentivi il colpo secco dello shoot, a fatica attendevi la successiva eco. Le sue squadre, Monza, Verona, Fiorentina, Milan, Roma, giocavano un football lineare, morbido, arioso, a zona, per dirla tatticamente senza che il docente per questo si spacciasse per depositario della scienza. Erano anni di dolce mestiere, per chi amava il football. Adesso un’altra fetta di vita se ne è andata. Nils Liedholm andrà a raccontare le sue fiabe agli angeli mostrando loro corni e gobbetti. Fa freddo a villa Boemia, qualcuno mi ha detto che quest’anno il grignolino non è «esesionale».

da: www.ilgiornale.it

Anonimo ha detto...

NILS E I SUOI "IOCATORI"

Freddure e tattica, quel mondo
antico del Maestro. Da Tosetto,
il «Keegan della Brianza», alle crostate del Cavaliere.

Era un maestro, Nils Liedholm, che «iocava» anche con i giornalisti. «Ogni volta che salivo a Milanello - racconta Guido Lajolo, cronista di cappa e spada - mi chiedevo con quale battuta mi avrebbe accolto». Gli archivi le custodiscono gelosi e divertiti. Mandressi, un attaccante del Milan che in un’amichevole a Rimini aveva «osato» fare due gol, fu innalzato al rango di «erede di Rensenbrink». Tosetto, un’aletta tutto pepe, diventò dall’oggi al domani, e da un dribbling a un cross, il «Keegan della Brianza». A Roma, nel declamare la formazione, Nils partiva da Valigi Claudio, centrocampista: «Valigi e altri dieci». Erano tempi più lenti, anche se non proprio vergini. Calcio-scommesse, proto-doping, robe così. Liedholm era il Barone. Un allenatore che amava il calcio al punto da non prenderlo sul serio. Rideva con gli altri, non degli altri. La televisione, allora, non era né urlata né sguaiata. La moviola costituiva un tenero e curioso giocattolo, le partite le raccontava Beppe Viola. Nessuno poteva immaginare che il futuro sarebbe stato di Biscardi e dei biscardiani. Neppure quando irruppe Berlusconi.

Liedholm fu il suo primo allenatore. Durò poco: troppo diversi. Nils era uno svedese di mondo, gran calciatore e gran tecnico. L’uomo di Arcore, giovane e pieno di antenne, prese il Milan nel 1986 e lo usò per trasformare il calcio e il paese. L’astuto e ironico precettore aveva altri ritmi, non solo altre idee: che poi erano i sogni e i progetti di una generazione spaccata dalla guerra e aggrappata alla mobilità del lavoro. Tutto cominciò con una crostata, a Barcellona, durante il torneo Gamper. La squadra a tavola, per lo spuntino pre-partita. Sembrava un banchetto nuziale. Il padrone non gradì il menù e passò la notte a confessare i giocatori, uno per uno, mentre il signor «mister» ronfava in camera. Ragazzi, mangiate troppo: che ne direste di una bella crostata? E così fu. Nils non fece una piega: «Il presidente è stato velocissimo centravanti della squadra della sua azienza, e anche allenatore». Arrivò il dietologo, seguito a ruota dallo psicologo, «utile - secondo Nils - per rincuorare i “iocatori” dopo un cinque in pagella».

Figuriamoci. Berlusconi parlava già di mission e sinergie. Liedholm correva di nascosto dal mago di Busto Arsizio per concertare la formazione. Era la stagione 1986-87, il Milan perse le prime due partite, con l’Ascoli e a Verona. Il Cavaliere, che friggeva come un calamaro in padella, gli chiese umilmemente: «Mi dia una mano». Nils gli diede la mano. Ad aprile, venne rimosso e sostituito da Capello. Non senza, naturalmente, un comunicato che schiumava di sincera riconoscenza e dolorosa necessità. A Liedholm bastava il possesso palla. A Berlusconi interessava il possesso di tutto. Dietro l’angolo, cominciava ad agitarsi la paranoia di Sacchi. Liedholm «iocava a sona», flirtava pudicamente con i risultati e, nei ritagli di tempo, distillava ilari motteggi. Come la storiella di Marco Macina, titolare designato in Lazio-Milan del gennaio 1985. La gara fu rinviata di ventiquattr’ore per un’improvvisa, e violenta, nevicata. Macina andò dal massaggiatore per ritirare la maglia. Liedholm lo fulminò: «Tu iocato ieri».

Alcune sono vere, altre verosimili, altre ancora patteggiate: tutte, però, ne rispecchiano l’indole e lo stile. Nils raccontò di non essere andato alla Juventus «perché, insieme, saremmo stati troppo forti per tutti». Boniperti non ha mai negato che gli piaceva e lo avrebbe voluto a Torino. Si videro a casa del conte Rognoni, parlarono per ore e ore, Liedholm con la sua cantilena, il presidente con i suoi scatti. All’alba, Boniperti ripartì in auto ed era così stravolto dalla ragnatela dialettica del Barone che si addormentò al volante e rischiò di finire in un fosso.

Il calcio di Liedholm: «Di solito, provo in partita gli schemi che poi mi riescono perfettamente in allenamento». Non aveva bisogno di spot. Uno scudetto al Milan, quello della stella, e uno a Roma. «Farò il direttore tecnico», comunicò agli amici quando Berlusconi assunse Capello. In realtà, non fece più niente: almeno nel Milan. Aveva una filosofia quieta, «è la palla che deve sudare, non voi». Falcao, però, lo forgiò lui. E Di Bartolomei «libero». E Maldera cannoniere. Fatti, non battute.

da: www.lastampa.it

Anonimo ha detto...

ATTORE ED AUTORE
di Stefano Olivari

Tutti sanno cosa ha vinto il Nils Liedholm allenatore, molti sanno cosa ha rappresentato: l’idea stessa del gioco a zona, al di là della disposizione in campo, in due decenni (i Settanta e quasi tutti gli Ottanta, fino all’avvento del Sacchi milanista nell’estate 1987) in cui mettere in discussione il calcio delle coppiette (molti quotidiani pubblicavano anche le marcature dei centrocampisti: Furino-Beccalossi, Tardelli-Pasinato, eccetera) era difficile tanto che anche un allenatore 'fusion' come Bearzot veniva criticato proprio perché non rispettava l'ortodossia. Non per colpa del brerismo, ma perché era proprio la maggioranza degli allenatori italiani a non prevedere altro tipo di calcio da quello a specchio sugli avversari. E chi non si allineava veniva inserito nel girone delle macchiette idealiste o, per la carriera peggio, di quello dei bravi solo in provincia: da Corrado Viciani con la sua Ternana dal ‘gioco corto’ (in realtà non una zona pura, visto che era previsto il libero) al Bari di Enrico Catuzzi, primo esempio italiano di 4-3-3 ad un certo livello (paradossalmente nel 1994 sarà proprio Catuzzi, scomparso l’anno scorso, a sostituire Zeman sulla panchina del Foggia). Insomma, Liedholm aveva il carisma per farsi prendere sul serio ma nei suoi anni d’oro non ebbe molti imitatori: quello che più gli si avvicina oggi è senza dubbio Carlo Ancelotti, con materiale umano migliore rispetto al Liedholm dello scudetto milanista ma anche a quello dello scudetto con la Roma. In definitiva Liedholm non inventò niente, perché anche Metodo e Sistema altro non erano che gioco a zona, però arrivò dopo vent’anni di pensiero unico italianista e insieme alle qualità della persona (da non confondere con la mollezza, perché in realtà era severissimo) la sua forza fu in fondo questa. Per il giocatore invece parlano i milioni di passaggi perfetti, sorta di Pirlo ma di grande taglia atletica, gli scudetti, il titolo olimpico 1948 e la Svezia trascinata alla finale mondiale nel 1958, a 36 anni, ma è logico che sul piano ideologico affascini di più l’allenatore. Fra autore ed attore, l’Europa sceglie sempre l’autore, ma Liedholm è stato un grande in entrambe le versioni.

da: www.settimanasportiva.it

Anonimo ha detto...

L'ULTIMO LIEDHOLM? LONTANO DAL CALCIO

09/11/07 - Da ieri il Barone riposa a Torino, la città della moglie Nina. Assente Rivera, la commozione di Maldini, Conti e Antognoni. Ma il paese ne traccia un ritratto inedito.

Nils Liedholm riposa da ieri nel Cimitero Monumentale di Torino, la città cui lo legavano le origini della moglie, Nina Gabotto, contessa finita in sposa al «Barone», perché anche nei piccoli dettagli la vita di Liedholm si tingeva di ironia. Sul sagrato della chiesa settecentesca di Cuccaro, rattoppata dei danni del terremoto di sette anni fa, se ne ascoltavano di aneddoti su quell’uomo disincantato e geniale. Ciascuno li spargeva dal proprio sacchetto di esperienze. Quella volta che segnò Scarnecchia e lui commentò: «Scarnecchia bravo ma molto bravo Falcao che gli ha tirato palla contro caviglia, così lui fatto gol». Quell’altra che lo trovarono assorto davanti a un video di calcio africano, più di vent’anni fa, e lui spiegò che sarebbe stato il calcio del futuro, perché «per giocare bene serve la fame». Oppure la storia dell’unico rigore sbagliato perché quell’anima perfida di Lorenzi gli aveva piazzato mezzo limone sotto la palla che si impennò sulla traversa, e quando il Barone la raccontava molti pensavano che fosse una balla, invece era andata davvero così.

Si rincorrevano gli episodi di un altro calcio davanti alla bara di legno chiaro nella quale Liedholm se ne è andato, e dentro alla chiesa appesa sulla collina, dalla quale si vede nella foschia, in lontananza, la torretta di Villa Boemia «il posto in cui un uomo probo, pulito, ha voluto vivere in segreto la maturità della sua vita», ha detto il vescovo di Casale, monsignor Zaccheo che ha celebrato la messa insieme a don Germano Rota, il parroco di questo borgo sulla strada dei vini, barbera e grignolino, quelli che il Barone produceva nella sua azienda. Quando la signora Nina era viva, Nils l’accompagnava ogni giorno a fare spesa a Cuccaro, e una volta si era affacciato sul campetto proprio sotto la chiesa, dove ieri si parcheggiavano le auto. «Fu quando Paolo, suo nipote, venne a giocare una partita tra ragazzini con il Casale», racconta un paesano. Rimasto vedovo lo si vedeva assai meno, una volta ebbe un malore in chiesa e lo portarono via con l’ambulanza: i vicini capirono che se ne stava andando.

Comunque in paese non parlava molto di calcio e la gente delle colline ha ancora il pudore di fare domande, anche se qui i milanisti sono tanti, perché nel Milan ci ha giocato Rivera mica perché l’ha comprato Berlusca. Rivera stranamente non c’è al funerale. E nemmeno il Cavaliere né Galliani, sebbene sui muri i manifesti a lutto esternino il cordoglio per la scomparsa del «primo della meravigliosa stirpe di capitani che ha fatto grande la Società». L’aulico Milan. Ci sono Braida e Ramaccioni e poi i ragazzi quarantenni: Donadoni, Ambrosini, Evani, Collovati, Franco Baresi, Tassotti e Ancelotti comparso a funzione quasi conclusa maledicendo la Torino-Piacenza «perché non si va avanti». Ci sono Maldini figlio e padre («Grande centrocampista, correva tantissimo e tirava fortissimo», il ricordo di Cesarone). C’è la Roma dei Pruzzo, Giovannelli, Bruno Conti con gli occhi umidi («per me è stato tutto») e Claudio Ranieri, un altro allievo, e Pessotto. Dalla Svezia insieme alle corone di molti club è arrivato l’ex presidente dell’Uefa, Johansson, e, tra i fiori, un bouquet di Antonello Venditti. Ecco Peruzzi che Liedholm fece esordire a San Siro il giorno del petardo scoppiato vicino a Tancredi e Antognoni che sospinse in serie A, e questa volta non era una questione di esplosivi.

«Il Barone aveva l’intuito per i giovani e la pazienza di migliorarli - dice Roberto Bettega -: mi portò al Varese ed ebbe il coraggio di lanciarmi. Un giorno mi disse se vado alla Juve tu vieni con me: invece a fine stagione io tornai a Torino e la Juve prese Picchi. Ma credo che Boniperti avesse davvero pensato a lui». Sarebbe cambiata la storia del calcio.

da: www.lastampa.it