Borrelli ha concluso, senza mezzi termini, che il calcio italiano è stato «un grande inganno ai danni dei tifosi». Penso spontaneamente a De Santis che ride in faccia ad Ancelotti, lo scorso agosto nel pantano di Ascoli. Poi penso ad Ancelotti che a Torino concordava il calendario con Moggi, il direttore sportivo che lo aveva scoperto molti anni prima alla Roma. E infine penso a Meani che, seduto in panchina con Ancelotti, guarda le bandierine «andare su» o «stare giù» sempre a senso unico, poi la sera chiama il designatore dei guardalinee Mazzei e dice che Galliani ne ha abbastanza. Il triste epilogo della vicenda, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti. E noi allo stadio ad illuderci e deluderci? Viene da domandarsi cosa resti, dopo. Per quattro mesi siamo stati accerchiati, presi a bersaglio e coperti di fango. Hanno raccontanto che noi eravamo come la Juve, e se intanto loro si portavano a casa anche gli scudetti (oltre che i bigliettoni dei diritti televisivi) era solo perché Galliani era un po' più pirla di Giraudo. Ma non meno disonesto. La società ha tenuto un profilo basso, nel senso che ha lasciato dire. Il Presidente ha preso la parola una volta sola e per chiedere indietro due scudetti: Guido Rossi ha risposto nominando Borrelli all'Ufficio Indagini e preparando le carte per il Golpe degli Onesti. Poi il silenzio. Silenzio assenso? I legali hanno lavorato per salvare la pelle dell'amministratore delegato, mai il blasone del club: i grandi interrogativi sollevati a giugno restano tutti aperti.
I conti continuano a non tornare, o forse sì. Il nostro vicecapitano ha commentato che «se qualcuno ha detto che Juve e Milan hanno sbagliato, allora lo scudetto dell'Inter è giusto». Come scriverebbe il candido Cannavò: fatemi capire... E il bel capitano cosa dice? Non dice, oppure dice che la Serie A senza la Juve non è la stessa cosa. Personalmente, ne ho abbastanza: non voglio più guardare.

Il grande inganno continua. Ci parlano di sentimenti - dei nostri sentimenti - pur sapendo che in campo scendono semplicemente dei professionisti, per i quali la maglia è un indumento di gioco. Un indumento a colori. E in società siedono dirigenti per i quali i colori sono una voce di entrata del bilancio, al capitolo merchandising. Hanno teorizzato lo smantellamento dei vivai, perché «un grande club non può permettersi di aspettare un giovane: bisogna vincere subito!». Dimenticando che gli unici professionisti dai quali ci si può attendere un attaccamento sincero e non ipocrita alla maglia sono quelli che hai allevato in casa, con quei colori addosso. «Per dirla tutta, l'unica maglia che mi sentirei di baciare veramente è quella dell'Ucraina», ha chiosato Sheva. Come dargli torto.
Dopo trent'anni di abbonamento a San Siro, io dico che preferisco non guardare. Guarderò ovviamente molta Serie B, tutta la Champions League, e quel tanto di Premiership che basta a rifarsi il palato. Ma a scanso di equivoci, SHEVALOVE continuerà a vivere. Perché di autentico restano sicuramente i gesti del campo. Quelli che la Gazzetta dello Sport non potrà incidere sul dvd commemorativo dello storico scudetto Telecom. Restano 173 palloni scaraventati in fondo al sacco e i (pochi) titoli sportivi che quei gol hanno contribuito a conquistare, sul campo. E restano le emozioni che essi hano suscitato: su tutte, la notte magica di Manchester. Perché le grandi storie d'amore possono finire - e spesso purtroppo finiscono - ma i grandi amori non finiscono. MAI.
1 commento:
LA PAROLA DEL MAESTRO
"Calciopolì ha illuso che il mondo del calcio potesse cambiare in meglio. In realtà continuiamo a fare le cose di prima. I dirigenti con i loro comportamenti, i giocatori dimenticando l'educazione e la correttezza... Sarebbe servita una pausa di riflessione. Ci saremmo dovuti fermare un anno. E invece noto che le polemiche imperversano come se nulla fosse accaduto, quindi le persone più equilibrate e mature si sono allontanate dal calcio. Ora gli stadi sono frequentati dai violenti e dai beceri. È difficile che dalla violenza possano nascere cose positive (...).
Bisognerebbe imparare a giudicare non il risultato ma la partita. Così, perdere giocando bene non diverrebbe più una tragedia. Invece sei hai vinto sei beatificato e se hai perso sei un coglione. Non ci si gratifica solo attraverso la vittoria. È questo il vero segreto".
Arrigo Sacchi sul Corriere della Sera del 4/10/2006.
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