Gattuso, la verità.[Corriere.it] «Io sono più milanista di Galliani». Nelle sue nove stagioni di vita rossonera Rino Gattuso ha ripetuto spesso questa frase ad effetto, forse un modo come un altro per tenere sotto carica costante emozioni, stimoli e adrenalina. E del resto che il rosso e il nero siano i colori dominanti nei suoi cromosomi è ormai fuori discussione, come testimonia il fatto che il cuore del tifo duro e puro lo abbia da tempo dipinto come «uno di noi, Gattuso uno di noi». Il preambolo è fondamentale per comprendere i dubbi che stanno popolando la testa di questo ragazzo del Sud, cresciuto a corsa e fatica, così caparbio da azzerare nel tempo certi grossolani handicap tecnici, così generoso nel cuore e professionale nella quotidianità dei gesti da essere ormai incoronato come uno dei capi carismatici nella sacralità dello spogliatoio di Milanello. Se Rino oggi — nove anni e otto trofei dopo — tentenna, si interroga sul suo futuro rossonero, non è certo perché la sua capacità di «essere più milanista di Galliani» si sia annacquata. Anzi... E neppure c'entra, come pure è stato insinuato, la vexata quaestio legata all'eredità di Paolo Maldini. Certo, dopo essersi dimostrato tiepido in passato («Queste cose sono per chi veste giacca e cravatta, non per me»), ora la fascia di capitano appagherebbe il suo orgoglio e forse qualche equivoco può averlo ingenerato il club, promettendola nei momenti di euforia ora all'uno (in corsa, in rappresentanza di un passato ricco di medaglie, c'è pure Ambrosini) ora all'altro (Kaká, sostanzialmente il futuro), ma non è questo il nocciolo del problema. Il problema vero è molto «umano» e sta sostanzialmente nel fatto che Rino Gattuso, trasparente come un pezzo di cristallo, si è reso conto che il tempo è passato, lasciando tracce profonde del suo scorrere. Può essere che questa annata complicata, figlia del successo nel Mondiale giapponese per club, abbia accentuato malesseri latenti in lui, certo è che nella sua analisi autocritica Ringhio si è scoperto improvvisamente nudo, senza più il sacro fuoco degli stimoli di una volta. E a questo impaccio mentale, alla testa appesantita dagli stress e dalle pressioni di decine e decine di partite sempre decisive, dentro o fuori, si è venuta a sommare la consapevolezza di non essere più lo stesso anche nel fisico. Nella sua onestà intellettuale (si dice così?) il maratoneta di Ancelotti ha intuito che, dopo migliaia e migliaia di chilometri trascorsi a correre, la resistenza ma pure la brillantezza, si sono appannate: difficile per uno come lui mascherare la fatica con le magie della tecnica. Un giochino di questo tipo potrebbe riuscire a Kaká, un Pallone d'oro non lo si vince mai per caso, non a un muscolare tout court. Rino era stato investito da una analoga crisi di coscienza già dopo la dolorosa e per certi versi irripetibile sconfitta di Istanbul: ora però, con altri due anni di successi e di amarezze nel motore, lo scenario è soltanto in apparenza simile a quello dell'estate del 2005. Ritrovarsi trentenne a fare avanti e indietro sulla fascia può risultare insostenibile anche per chi ha fatto della fatica la stella cometa della sua vita, e qui, ovviamente, si mescolano pure l'immutabilità di un modulo che non è mai stato generoso con lui e la carenza di alternative che rischiano di spedire in sanatorio anche Pirlo e Ambrosini.
Ecco perché il milanista doc Gattuso Gennaro da Corigliano Schiavonea, Cosenza, sogna di andare a caccia di un calcio più lieve e meno intossicante, ovviamente al di fuori dei patrii confini. E, anche se qualcuno potrebbe sospettare il contrario, non è una faccenda di soldi. «Per il calciatore che sono, guadagno fin troppo» è un altro dei suoi slogan. Uno così è a suo modo un idealista e potrebbe magari tornare sui suoi passi, sulla vecchia strada. Perché non si è più milanisti di Galliani per caso.Per "essere milanisti più di Galliani" è sufficiente non essere nati a Monza di fede
goeba. Ma non è questo il punto. Da quasi tre anni,
Shevalove racconta la verità che non si legge sulla stampa di regime e non si ascolta sui canali bulgari:
la verità del Popolo Rossonero, cioè del Vecchio Cuore che batte ancora in qualche settore di San Siro, depresso ma non lottizzato dagli sponsor istituzionali e dalla curva degli impiegati ultras che cantano a comando. Racconta la storia di un gruppo di uomini ostinati e predestinati, che ha saputo sopravvivere alla notte delle streghe turche e persino a se stesso, per chiudere
il cerchio fantastico delle rivincite contro Liverpool e Boca Juniors. Il ciclo del Milan di Carlo Ancelotti era finito ad Istanbul il 25 maggio 2005, e Rino Gattuso - l'unico e autentico capitano
sul campo di quel gruppo - lo aveva capito forse un momento prima dei vari Kakà, Pirlo e Shevchenko: giusto per citare i nomi di chi, fra l'ecatombe dell'Ataturk e il golpe bianco di Calciopoli, aveva già deciso di dare una svolta alla propria vita. La storia poi racconta che di quei Fantastici 4 - per una quantità di motivi che qui è superfluo ribadire - fu sacrificato solo il Balon d'Or, con ciò ripianando per la prima volta nel ventennio berlusconiano un bilancio fisiologicamente deificitario. Altro che le filastrocche sul "traditore".
Ringhio ha staccato la spina da non meno di un anno: diciamo (con amarezza) da quando compare più spesso negli spot televisivi che nello score dei palloni recuperati a centrocampo. Ma da almeno due anni manda
segnali chiari ed inequivocabili alla società: la rosa va rinvigorita, meno calciomarketing e più calciomercato. In Rino veritas. L'esito delle sue lamentazioni ha preso a tutt'oggi le fattezze indegne dei vari Bobone Vieri, Marcio Amoroso, "Erre punto" Oliveira, Ronaldo, Emerson, e a seguire forse Ronaldinho. Come direbbe l'amico Pupone sul set romano:
famo a capisse... Triste constatarlo, ma quella di Gattuso è solo un'altra faccia (una fra le tante perse alla causa) della progressiva decadenza
di un sogno che un tempo era
chiamato Milan. Raggiungere il famigerato "obiettivo minimo" di Galliani & Ancelotti (
obiettivo finanziario e non già sportivo) significherebbe solamente prolungare di un anno ancora l'equivoco degli "immortali" e la lenta agonia di questo nostro povero Diavolo. Da Rossonero, non è una partecipazione velleitaria alla Champions League ciò che mi auguro per il 2009, ma finalmente una stagione competitiva in Italia. E perché no, un'altra cavalcata europea per l'unico trofeo che non compare nella bacheca di Via Turati. Per poi ricominciare a sognare quella
stella in più da cucire sul petto.